lunedì 23 dicembre 2013

Non c'è Natale senza sciarpa e cappello

Sono le 18.36 del 24 dicembre 2013 e noi siamo in Australia. Il nostro primo Natale australiano.
Siamo meridionali e il sole ci fa stare bene. Amiamo più l'estate che l'inverno. Più il mare che la montagna. Preferiamo i costumi ai maglioni e i sandali agli stivali.
Ma il Natale senza sciarpa e cappello non è la stessa cosa.
Sono le 18.36 e non sentiamo l'odore del ragù che cucina da almeno 5 ore. Nè quello di dolci e pizze nel forno. Il telefono non squilla per sentirci chiedere a che ora arriva quello o questo. Non ci sono regali sotto l'albero. Nessuna concitazione prima del cenone. Nè bambini urlanti che cercano di indovinare che regali porterà Babbo Natale quest'anno.
Non c'è nessuno con cui dividersi i compiti. L'addetto alla carne. L'addetto agli antipasti e chi apparecchia per 20.
Siamo qui, io e il mio fidanzato, a vivere questa strana vigilia assolata. Io e lui a domandarci se forse dovremmo organizzare qualcosa per noi.
Ho comprato un cappello di Babbo Natale ma non mi basta a sentirmi in tono.

Vorrei sapere con chi giocare a  carte dopo mezzanotte. Vorrei avere residui di nastro adesivo attaccati sulla tovaglia perchè sono diventati invisibili mentre incartavo i regali.

Ma avremo probabilmente una sera come le altre e un risveglio a 30° (che sono quelli previsti!).
E un po' di nostalgia per la famiglia. Perchè il Natale è famiglia.

Mi metterò il cappello di Babbo Natale e penserò a tutte le feste che ci toccherà recuperare quando torneremo in Italia!

Buon Natale a chi sarà in famiglia e soprattutto a chi, come noi, lo trascorrerà lontano da casa, senza cenoni e botti a mezzanotte.

mercoledì 4 dicembre 2013

Sono italiana e non posso stare calma

Da 7 mesi via dall’Italia, da 7 mesi in Australia, una nazione completamente agli antipodi e
soprattutto da 7 mesi a contatto con una realtà che mi convince sempre di più che è possibile registrare i minimi storici di ansia e preoccupazione. Eppure questo non mi è bastato a tirare una bella riga sulla parola Italia. Amo la mia Italia come la amavo mentre la guardavo rimpicciolirsi dal finestrino dell’aereo e la amo anche di un amore più forte quando ogni giorno al tg 1, che guardo in differita di poche ore, mi commuovo senza meraviglia per tutto quello che non vorrei mai vedere o sentire. La disperazione non scema con i kilometri e così l’amore e l’appartenenza. E come l’amore e la disperazione, la rabbia fa fatica a dirsi vinta anche quando ripagata dalla serenità che ho acquistato dall’altro lato del mondo in mezzo all’oceano, qui dove tutto sembra essere stato creato per non farsi vincere da nessuna complicazione.

Ma io sono italiana e sarò italiana fino a quando avrò fiato per dirlo. Non c’è nessun paragone che regga tra queste due terre così diverse e non c’è mano che possa spazzare via una terra di origine come fosse polvere. Fino ad ora sono stata italiana con rabbia e con rabbia sono venuta quaggiù per darmi un po’ di pace. Non mi sono emancipata dall’Italia che mi ha cresciuta, né dalla terra che mi ha fatto gridare, piangere e sbraitare quando mi faceva sentire abbandonata a nessuna risposta possibile. Mi sono emancipata dall’idea di rassegnazione.

La felicità di svegliarsi sereni e senza alcuna preoccupazione fa a cazzotti con la bellezza di un’Italia che, vista così da lontano, sembra sempre più impantanata nella rassegnazione degli italiani e in quello scarica-barile che serve solo a lavarsi le mani per paura di sbagliare ancora. Quello che vedo da quaggiù è un’Italia che non sa nemmeno più sbattersi la testa contro un muro, l’Italia di chi il lavoro non lo cerca nemmeno più, di chi ormai ha accettato di sentirsi degradato. 

Non mi sentirò mai non-italiana e anche se ho scelto di restare lontano qui sarò sempre l’italiana che pronuncia troppo le “erre” e che pensa che sia un crimine mettere l’ananas sulla pizza, l’italiana che quando parla muove l’aria con le mani e che fa colazione con il caffè perché le uova e il bacon a colazione mi si mettono sullo stomaco. Sono italiana e sarò anche un luogo comune vivente ma l’Italia non è un nome su un passaporto ma un tatuaggio sul cuore.

Per tutte queste ragioni la parola Italia per me fa anche rima con la parola rabbia. Sono arrabbiata, imbestialita con tutte quelle persone che in Italia si sono messi al timone di grandi e piccole istituzioni e guidano il paese come fosse una zattera mezza distrutta. Sono imbestialita con chi si è trasformato in un automa e non fa mai la differenza perché lo stipendio forse gli arriva ogni inizio mese e quello che c’è intorno non conta quanto il cartellino timbrato e le cifre sul suo misero conto in banca.
Sono furiosa con l’università in cui mi sono laureata perché probabilmente sta in piedi a stento ma non fa niente per mettersi dritta e provare a competere con le altre università italiane. Cavoli! Siamo l’Italia di alcune tra le più antiche università europee, l’Italia di Dante! Sono amareggiata per tutte quelle volte in cui ho pensato ai miei studi universitari come al mezzo per costruire la mia cultura e per crearmi un pass per entrare nel mondo vero e invece mi accorgo che siamo stati numeri in registri di carta che presto finiranno bruciati insieme alle nostre tesi di laurea. Sono arrabbiata, sono nera, furibonda con quel segretario di facoltà che ha una faccia di bronzo e che ti parla come se tutto fosse ovvio e normale perché “va così e prendi quello che c’è, accontentati e vedi anche di non pretendere”. Sono offesa dal fatto di non poter dimostrare all’Europa e al mondo intero che ho conseguito una laurea che per legge è valida. E sono nervosa perché non sono in Italia per poter correre da quello stesso segretario e gridargli che facesse meglio a licenziarsi se crede che una traduzione dall’italiano all’inglese sia sufficiente a definire l’equivalenza tra un titolo di studio italiano ed uno estero. Proprio lui che è in se stesso uno strumento della cavillosa burocrazia italiana pretende che la burocrazia internazionale sorvoli accettando un foglietto volante tradotto letteralmente dall’italiano all’inglese. E cosa rimane? Rimane l’invincibile gatto che si morde la coda. Rimane la mia rabbia e rimangono tutte le future generazioni addestrate ad accontentarsi e a non contestare l’ovvio al segretario di turno che si mostra anche scocciato di tanta insistenza. 

Questa è l’Italia che mi fa piangere guardando il tg, l’Italia che mi fa urlare quando si avviluppa nei suoi stessi errori e nella sua ignoranza e l’Italia che sta lavando via la sua bellezza per rassegnazione.

Chi resta, resti per amore e determinazione. 

Io ho scelto di andarmene non per rassegnazione ma per provare ad essere felice, prendendomi anche il prezzo da pagare.

mercoledì 28 agosto 2013

Reinstatement mode: on

È difficile raccontare attraverso le parole quello che significa vivere qui. La natura ha rumori che nemmeno si
può immaginare. E allora ti sembra di avere sempre qualcuno con una straordinaria capacità mimetica che ti spia dall’alto.
La nostra nuova casa è situata sulla parte più alta di una piccola altura da cui è possibile vedere un orizzonte irregolare di colline dagli infiniti verdi. Tutto attorno alberi altissimi e fitti che ospitano le più incredibili varietà di uccelli e pappagalli che tutto il giorno si scambiano messaggi indecifrabili e dalle melodie più strambe. Appena fuori dal lungo viale alberato e costeggiato di ciclamini si giunge su una strada di terra battuta e proprio dall’altro c’è un bosco fittissimo nel quale non credo mi avventurerò mai. Da quel bosco l’estate vengono fuori canguri e chissà cos’altro per concedersi un riposo al sole sul vasto prato che si stende davanti.

La notte qui ha un vestito diverso che non avevo mai sperimentato. Quando il sole cala dietro la collina colorando il cielo di un rosso intenso restano solo le ombre a raccontare la notte che arriva a passi lenti. Dopo solo il buio, quello denso e impenetrabile. Nelle notti di luna piena invece è come se ci fosse un grande lampione luminosissimo che consente di vedere persino le colline all’orizzonte.
Il vento non lascia pace al silenzio e durante la notte è come se la natura si risvegliasse a godersi l’armonia.
Gli animali si fanno più rumorosi e ammetto che è difficile per chi come me ha sempre abitato in centri abitati razionalizzare e convincersi che non ci sia nessuno lì fuori, solo animali. Mi sorprendo qualche volta spaventata a guardare fuori dalla finestra.
Il picco della mia inadeguatezza l’ho raggiunto qualche notte fa dopo essermi messa a letto. Tentavo di addormentarmi, ma nulla, non c’era verso. Mi giravo e rigiravo nel letto assordata dal silenzio.
Quando nitido, vicinissimo, sento un rumore chiarissimo di passi e come un bussare sulla finestra della stanza da letto. Inutile dire che mi è quasi venuto un infarto. Si impara presto che non ci sono rumori vicini quando si abita in spazi così ampi. Ma quel rumore era davvero vicinissimo. Proprio lì. Terrorizzata ho svegliato Cristian e nonostante i suoi tentativi di calmarmi, il mio cervello non voleva accettare l’idea che per un ladro malintenzionato casa nostra non è proprio il posto ideale da visitare. Senza precisare poi che qui dormono con le porte aperte e lasciano le chiavi delle auto in macchina!
Comunque, io ero finita in un incubo ad occhi aperti in cui non avevo torce con cui avventurarmi nella notte. Intanto quei rumori si ripetevano. Sono andata comunque a controllare dall’altro lato della casa senza riuscire  a vedere nulla nel buio pesante di quella notte senza stelle.
Ho dormito malissimo e solo il mattino dopo ho realizzato che sotto la finestra della camera da letto c’è una trave di legno che sta quasi per venire via e che lascia aperto lo spazio vuoto sotto la casa. Sarà stato un wombat o forse una volpe, magari un opossum o un koala. Ma c’era qualcuno lì a disturbare il mio sonno. Non è così facile abituarsi a tutta questa vita che indipendentemente da te fa il suo corso attorno a te.

Ed è proprio in questi momenti che penso a tutti quegli uomini e donne che 50/60 anni fa arrivarono qua con il coraggio di pionieri e si stabilirono nel bel mezzo di questa natura selvaggia per crearsi uno spazio in cui vivere. Allora sì che non c’era nemmeno un prato a dividerli dalla boscaglia.

Ma mi piace vivere quaggiù dove il vento si incunea nelle travi della casa e dove è possibile sentire le rane gracchiare come in un immenso coro, indisturbate, dove la via lattea divide il cielo in due e solo alzare gli occhi al cielo riempie lo sguardo di meraviglia.


Mi piace vivere qui dove posso reintegrarmi in una natura a cui siamo tutti disabituati. 

domenica 25 agosto 2013

La valigia troppo piccola

Nonostante i buoni propositi, c’è sempre stato qualcosa a tenermi lontana da questo blog. Che sia stata la vita che ho vissuto nelle ultime settimane, il tentativo di non lasciarmi scappare nulla o la velocità, non saprei dirlo. Ma sono successe tante cose. Ed è strano come le cose cambino in modo così rapido quando si è alla ricerca di un po’ di stabilità.

Negli ultimi tre anni in Italia abbiamo cercato in tutti i modi di costruirci qualcosa che assomigliasse ad una casa, un posto dove tornare e di cui si potesse avere la certezza. Non è stato facile e non è stato facile nemmeno accettare l’evidenza, non c’era un modo per sentirsi sicuri e positivi.

E adesso invece, a così tanti kilometri di distanza ci ritroviamo a vivere in una casa che è molto al di sopra delle nostre aspettative, affacciata su un panorama alla cui bellezza, sono sicura, non ci abitueremo mai.

Più volte ho ribadito che l’Australia non è l’Eldorado e continuerò a ripeterlo finché avrò modo di sperimentarla da dentro. Più passano i giorni più realizzo che non c’è un posto che possa dirsi perfetto e se l’immagine della perfezione, che così di frequente le viene attribuita, continua a resistere lo si deve soprattutto alla forza del paragone. Fra l’Italia e l’Australia non ci sono paragoni che siano degni di esistere. E poi perché dovrebbero. Qui siamo dall’altro lato del mondo e anche se è vero che qualche volta “tutto il mondo è paese” è anche vero che ogni paese ha la sua storia.

Sembra ancora un paese pulito in cui le cose vengono gestite nella trasparenza della loro naturalezza e dove il lavoro tiene lontano la maggior parte delle persone dal cercare vie alternative.
Siamo dovuti venire fin qui per sentirci un minimo tranquilli, lavorando e guadagnandoci quello che abbiamo. Ma l’Italia è lontana, lontanissima e manca, perché l’Italia è casa, la famiglia, gli amici e la spontaneità.
Forse due giorni fa non avrei scritto quello che sto scrivendo ma quando la vita corre così veloce attorno si fa presto a tirare le somme e a capire che emigrare è un bisogno, una necessità, quasi sempre una costrizione che si accetta di buon grado, ma quasi mai una scelta comoda.
Stiamo sperimentando un mondo nuovo, ci stiamo confrontando con stili di vita di cui non sapevamo nulla e ci stiamo ambientando nel migliore dei modi. Stiamo bene ma siamo qui a sperare che in Italia stiano tutti bene, che le cose vadano meglio per chi ci siamo lasciati alle spalle e a credere che le cose torneranno ad essere rosee. Perché alla fine dei conti non riesci a lasciarti proprio nulla alle spalle, se non un numero incalcolabile di kilometri.

Parlando con un’amica che come me ha lasciato l’Italia per venire quaggiù sperando di trovare un po’ di serenità, osservavamo che ci vuole coraggio per avventurarsi così, ma ci vuole molto più coraggio a soffrirne perché la sofferenza sbiadisce i propositi e ridimensiona l’impresa. Ma non si può fare a meno di pensare a chi è rimasto in Italia quando invece vorresti avere tutti attorno, gli amici, la famiglia, i nipoti. Perché la vita corre corre e intanto ti perdi un sacco di cose che invece avresti voluto vivere.
Le chiamiamo scelte e le scelte comportano quasi sempre rinunce che il più delle volte non si è in grado di gestire perché necessitano solo di essere accettate per quello che sono. L’Italia è un paese che fa piangere, di disperazione e di gioia perché è dove ci è capitato di avere radici e da dove siamo partiti per sentirci più forti.

Non c’è modo di mettere in pari le cose. Vivere quaggiù è splendido ma il cuore non ha trovato posto in valigia. 

venerdì 2 agosto 2013

La disarmante voce della natura

L’Australia è un paese così strano di quella stranezza che si ripara dalle classificazioni di genere.
Ancora più strano è viverlo da immigrata alle prese con visti, leggi, tempistiche e eccezioni alla regola.
Ma ha dalla sua la bellezza che lascia a bocca aperta e basta quello a sentirsi ripagati dagli sbattimenti e dalle preoccupazioni.
I paesaggi si stendono come cartoline tridimensionali dinanzi allo sguardo, accecanti nel loro bagliore. Gli arcobaleni si fanno strada nel cielo come autostrade di fantasia, nitidi e perfetti. Puoi contare tutti i colori, pensare di montare in macchina e correre a toccarli. Archi di luce.

L’altro giorno ero in piedi fuori dal mio hut a godermi il sole che scende a salutare la campagna e un koala è venuto a salutarmi, in bilico sul ramo più basso e penzolante di un albero imponente.
Curiosi animali i koala, così teneri e coraggiosi da non temere questi incontri ravvicinati, con il naso che fa pensare subito ai bottoni di pelle incollati sui peluche di quando eravamo bambini.

Ci sono poi anche animali meno simpatici, come quei stranissimi uccellacci neri e bianchi,, grandi come gabbiani che difendono con rabbia i loro nidi e al solo sentore di qualcosa che si muove partono in picchiata sulla tua testa e l’unica cosa che senti e uno scuotere d’aria vicinissimo e un’ombra che plana sulla tua testa. Mi hanno raccontato che quando, negli asili, portano i bambini a spasso o in giardino gli mettono in testa delle scodelle di plastica bianche su cui vengono disegnati occhi e bocca in modo che dall’alto l’uccellaccio si illuda di vedere dei volti e si arrenda a restare sul suo ramo. A quanto pare se li si guarda desistono.



Non c’è modo di vincere sulla natura, su questo vento che scuote via tutti i pensieri, che ostacola ogni compostezza.
Le chiome degli alberi fluttuano in onde che fanno pensare ad un mare verde. Gli alberi più vecchi crollano sulle strade arresi alla forza dell’aria. E li si può solo scostare sul ciglio della strada ma non portarli via perché qui la natura non si tocca.
C’è una legge che proibisce di tagliare alberi e un’altra che obbliga a piantarne in un certo numero. C’è anche una legge che punisce severamente chi ruba pappagalli e un’altra che sanziona chi uccide canguri ingiustificatamente.
Non c’è scampo al colore del cielo che ti afferra con i suoi viola e arancio, i suoi densi e cangianti riflessi tra nuvole di cotone.
Non c’è scampo al fascino della routine che si cadenza in ritmi di pace, delle piante che crescono, degli uccelli che migrano o dei fiumi che scorrono.


Non c’è legge, visto o regola che può cancellare la disarmante immobilità di atmosfere antiche rannicchiate in cassette della posta di legno, cartelli oscillanti e arrugginiti ad indicare uno shop isolato, capanni di colori sgargianti e mucchi di legna che sembrano essere lì da 100 anni.
Non c’è progresso che possa sciogliere i nodi nella gola di fronte alla poesia che si respira qui.

Bisogna solo saper ascoltare, il trattore che attraversa il campo, la vacca che pascola e il cigolio di un’altalena abbandonata in un prato. 

sabato 13 luglio 2013

Una domenica australiana

Piove e la campagna sembra palpitare sotto questa pioggia scrosciante che vuole lavare a tutti i costi
qualcosa, come se non ci fosse abbastanza acqua per rinvigorire questa natura prepotente, questa natura che sa già ben proteggersi dalla civiltà.
Il rumore del ruscello sovrasta anche i pensieri e porta via la giornata in mulinelli di schiuma mentre le mucche continuano a pascolare libere e i vitelli a cercare il loro posto placiti sulla linea dell’orizzonte dove una collina lascia che il cielo e la terra restino perennemente abbracciati.

Mi ritrovo ancora sotto un patio, come due mesi fa, ma un patio diverso abbarbicato sulla riva del creek che da il nome a questa località e raccolgo i miei pensieri come in una treccia da poter poi appendere per lasciarli essiccare. Perché qui mi sembra solo di poter vivere la giornata seguendo i ritmi della natura e lei concede tempo e spazio per annodare pensieri, come se li strappasse via dalla testa concedendo il silenzio che la città non ammette mai.
La pioggia scende a gocce dalla tettoia e crea una tenda di piccoli fili di acqua che segna il confine della mia protezione sotto questo patio scricchiolante e la collina oltre. Seduta su una fredda sedia di ferro in stile francese batto i tasti del computer per dare forma a ciò che non può essere descritto totalmente.
Qui la domenica non ha odori diversi dal solito, ma solo la distensione del riposo e il pungente aroma di biscotti caldi e legna bruciata nei camini.

I rami di gumtree penzolano attorno come decorazioni improvvisate dagli alberi mentre io mi sforzo di ammettere che qui si può solo arrendersi alla vita attorno, anche quando vorrei essere io a dominare.