L’Australia
è un paese così strano di quella stranezza che si ripara dalle classificazioni
di genere.
Ancora
più strano è viverlo da immigrata alle prese con visti, leggi, tempistiche e
eccezioni alla regola.
Ma ha
dalla sua la bellezza che lascia a bocca aperta e basta quello a sentirsi
ripagati dagli sbattimenti e dalle preoccupazioni.
I
paesaggi si stendono come cartoline tridimensionali dinanzi allo sguardo,
accecanti nel loro bagliore. Gli arcobaleni si fanno strada nel cielo come
autostrade di fantasia, nitidi e perfetti. Puoi contare tutti i colori, pensare
di montare in macchina e correre a toccarli. Archi di luce.
L’altro
giorno ero in piedi fuori dal mio hut a godermi il sole che scende a salutare la
campagna e un koala è venuto a salutarmi, in bilico sul ramo più basso e
penzolante di un albero imponente.
Curiosi
animali i koala, così teneri e coraggiosi da non temere questi incontri
ravvicinati, con il naso che fa pensare subito ai bottoni di pelle incollati
sui peluche di quando eravamo bambini.
Ci
sono poi anche animali meno simpatici, come quei stranissimi uccellacci neri e
bianchi,, grandi come gabbiani che difendono con rabbia i loro nidi e al solo
sentore di qualcosa che si muove partono in picchiata sulla tua testa e l’unica
cosa che senti e uno scuotere d’aria vicinissimo e un’ombra che plana sulla tua
testa. Mi hanno raccontato che quando, negli asili, portano i bambini a spasso
o in giardino gli mettono in testa delle scodelle di plastica bianche su cui
vengono disegnati occhi e bocca in modo che dall’alto l’uccellaccio si illuda
di vedere dei volti e si arrenda a restare sul suo ramo. A quanto pare se li si
guarda desistono.
Non
c’è modo di vincere sulla natura, su questo vento che scuote via tutti i
pensieri, che ostacola ogni compostezza.
Le
chiome degli alberi fluttuano in onde che fanno pensare ad un mare verde. Gli
alberi più vecchi crollano sulle strade arresi alla forza dell’aria. E li si
può solo scostare sul ciglio della strada ma non portarli via perché qui la
natura non si tocca.
C’è
una legge che proibisce di tagliare alberi e un’altra che obbliga a piantarne
in un certo numero. C’è anche una legge che punisce severamente chi ruba
pappagalli e un’altra che sanziona chi uccide canguri ingiustificatamente.
Non
c’è scampo al colore del cielo che ti afferra con i suoi viola e arancio, i
suoi densi e cangianti riflessi tra nuvole di cotone.
Non
c’è scampo al fascino della routine che si cadenza in ritmi di pace, delle
piante che crescono, degli uccelli che migrano o dei fiumi che scorrono.
Non
c’è legge, visto o regola che può cancellare la disarmante immobilità di
atmosfere antiche rannicchiate in cassette della posta di legno, cartelli
oscillanti e arrugginiti ad indicare uno shop isolato, capanni di colori
sgargianti e mucchi di legna che sembrano essere lì da 100 anni.
Non
c’è progresso che possa sciogliere i nodi nella gola di fronte alla poesia che
si respira qui.
Bisogna
solo saper ascoltare, il trattore che attraversa il campo, la vacca che pascola
e il cigolio di un’altalena abbandonata in un prato.
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